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Pubblico qui parte di un articolo sul Tantra, scritto per Percorsi Yoga, a cura di YANI (n.64, 2013). Il testo e’ parte di una ricerca personale di elementi e meccaniche yogiche e tantriche in autori che reputo significativi in relazione all’eccesso, al limite, ai margini della sessualiata’ come dinamica di superamento e sprofondamento nell’umano che siamo. Tra questi Donatien-Alphonse de Sade, Vasugupta, Georges Bataille, Abhinavagupta, e altri ancora.
Scorre, in questa ricerca lenta e dissoluta, la volonta’ di allentare tensioni generate da alcune atrofie del pensiero, tra queste il conformismo, il buonismo, il welfare, l’imborghesimento dei saperi.
“Nell’eccesso, nello stupore, nel lusso della natura, in ciò che è troppo e non si lascia passare, in ciò che si cerca e non si vuole trovare, dove attrazione e spavento si confondono e disperdono, dove si situa colui per il quale non vi è male né bene, dove tutto è sulla soglia dell’impossibile, del picco, della vertigine, in quell’istante in cui, nonostante tutto questo, la sovranità dei sensi è la sovranità sui sensi stessi, lì vi è tantra.
In questa pulsazione creatrice e distruttrice che riguarda tanto l’umano quanto tutto il resto, in una pulsione senza segno, nell’istante che precede e segue il bhoga, il godimento, lì dove tutto è tutto, dove si riabilita l’ignobile e il sacro, lì è tantra.
E lì dove tutto serve nulla è sovrano.
Viene da pensare alle rovine della città di Mohenjo-daro, sulle sponde del fiume Indo, che lasciano immaginare l’antica vita di una civiltà in cui non vi era sviluppo architettonico verticale ma orizzontale, e probabilmente questa orizzontalità si rispecchiava anche nella società lì installata; un popolo privo di accentramento di potere o distribuzione gerarchica.
Si narra nel testo tantrico Vijinanabhairva, tradotto da alcuni come “La conoscenza del tremendo” da altri come “La conoscenza oltre la conoscenza”: “All’inizio e alla fine di uno sternuto, nel dolore o davanti a un precipizio, fuggendo da una battaglia, nell’eccitazione del desiderio, all’inizio e alla fine della fame, e’ presente l’essere del brahaman”. Una sorta di percorso a picchi, in cui non si risparmia nulla, ma semmai si spreca, ci si spreca nell’esserci fino a non esserci più.
Tantra è la vetta eccessiva di ciò che siamo; a sostenerla, l’eleganza e la forza di uno yogi. In qualche modo di quelle vette narra esplicitamente il Marchese de Sade nelle sue varie parabole sessuali su ciò che è natura e contro natura e ciò che vorticosamente supera entrambe: “Per l’uomo integrale, che è il vertice dell’uomo, non esiste male possibile.”
L’erotismo ad un estremo e la morte all’estremo opposto c’entrano eccome. Nei secoli, tabù e sterilizzazione si sono abbattuti su di essi, desacralizzandoli e modificandone flusso e manifestazione.
E’ il controllo, la psichiatria, la storia, è il potere, ma anche un certo proselitismo iperdemocratico: la paura che s’intromette nel tantra lo rende interdetto o sterilizzato. E’ un’operazione ben nota e banale che, al contrario, stuzzica la trasgressione.
Il desiderio di travalicare i propri limiti psicofisici, nel tantra quanto nell’erotismo, è il minimo che ci si possa aspettare.
E’ nella potenza del desiderio a venire, di un desiderio senza nome, è nell’atto della meditazione, della contemplazione, del khumbaca (sospensione del respiro), nello stupore, nell’eccitamento, che il tantra si manifesta.
L’etimologia di “desiderio” e’ piuttosto illuminante, ed affonda le radici nel latino de-siderare, che gli studi lasciano nell’ambiguita’ di un duplice significato, che si oppone a se stesso e si completa: il de-siderare come il contemplare le stelle e contemporaneamente il togliere lo sguardo da esse, il de come prefisso di allontanamento. Un gioco di sguardi seduttivo e sospeso.
“In principio fu il desiderio che si mosse sopra Cio’, il desiderio che fu il primo atto fecondante della mente. Il legame di Ciò-che-è e Ciò-che-non-è lo trovarono nel loro cuore i poeti, cercando con la meditazione“, narra il RgVeda in uno dei passaggi iniziali che raccontano poeticamente l’origine dell’universo, il caos primordiale (X 129).
Un atto doppio e di direzioni opposte, che crea una relazione tra la presenza e l’assenza, il riempimento e lo svuotamento, l’espandersi e il ritirarsi, una pulsazione che richiede tutto.
Un eccesso che è un eccesso corporeo, un eccesso dei sensi, un eccesso del pensiero come manifestazione della massima partecipazione ad uno stato, fino al divenire quello stesso stato. Un amplesso in tutta la sua complessità.
Non pensare all’erotismo, all’estetica della sessualità umana, e per estetica s’intende ciò che è sensibile, ciò che si sente (l’etimo greco deriva da aisthanomai, ovvero “io percepisco, io sento”) sarebbe un atto igienizzante nei confronti del tantra e svilente nei confronti della sessualità; d’altro canto cercare una sovrapposizione perfetta tra sesso e tantra sarebbe smussare contorni che comunque non combaciano.
Uno stato sovraestetico, una sovrasensualità che permane nell’essere, nella carne, e lì vi conduce, attraverso i sensi stessi, l’impossibile, il sacro, l’infinito. E lascia passare quello che solitamente, nella vita conforme, nelle norme, nelle abitudini, viene interdetto, escluso, espulso dal pensiero, e poi dalla società.
C’è una certa tendenza umana a confondere lo stupore al cospetto dell’inaspettato con il disgusto, e ad attivare una relazione basata su un moto respingente. Ma l’oscenità è pur sempre una relazione: tanto il soggetto è capace di concepire oscenità, tanto l’oggetto del suo sguardo diviene osceno.
Accompagna il tantra (e colui o colei che ne intraprende il percorso) un sovrasensualismo che ha a che fare con l’arte, con il riso, con gli abissi, con gli orgasmi, con un corpo che nell’atto tantrico supera se stesso stando allo stesso tempo al corpo, alla mente, ai sensi; forse un paradosso.
Non ha nulla a che fare con il benessere come lo s’intende oggi; piuttosto va oltre il benessere ed il malessere. Un corpo in senso ampio, un superconduttore che si lascia andare ai sensi non per perdersi ma per giungere a lasciare andare i sensi stessi; è il quinto passo dell’astangayoga di Patanjali, il pratyahara, l’emancipazione dai sensi.
Una mistica intima con dei altrettanto intimi, senza un dio governatore, in cui puro ed impuro convivono, in cui il tabù non copre il sacro, in cui non si rinuncia alla carne, ma si rinuncia alla carne come concetto.
L’atto d’introdurre un impossibile che disorienta è il coraggio di spezzare il conformismo, l’automatismo, ridando onore alle venature sovversive che scorrono nel corpo del tantra e in quello yogico; è in questo smembramento dell’io che si balza al di là del bene e del male, al di là dell’identità, unendosi a qualcosa che non si può conoscere per contenimento ma per intuizione. Intuire è osservare dentro, penetrare con gli occhi, come fosse un profondo atto sessuale dello sguardo.
L’uomo, ma forse in egual modo anche gli animali, posseggono istintualmente questa facolta’ di unirsi all’altro da sé, di coitare; l’unione sessuale come rappresentazione dell’unione massima con l’altro da sé, la caduta del limite non solo di riferirsi a se stessi ma di riferire a se stessi l’universo tutto, prende forma in un atto corporeo tanto superficiale e scontato quanto coinvolgente e viscerale, dell’essere altro.
Un atto muto che può tutto senza dirlo, senza sviscerarsi, spiegarsi, tra la luce ed il buio di ogni creazione.
Affiora così la possibilita’ di una saggezza sessuale profonda, di una potenza adamantina che richiede un certo analfabetismo (andare oltre la grammatica), un antinomismo (andare oltre le leggi), un’indisciplina sovversiva che lascia vibrare, e contemporaneamente una signoria, una sovranità nell’atto, un portamento yogico.
Non vi è semplificazione possibile, né complicazione; vi è piuttosto una via totalizzante e vorticosa in cui il puro equilibrio affonda la sua origine nello squilibrio.
Che la follia e il suo contrario s’incontrino e ruotino sullo stesso cerchio è cosa fondamentale. Parapara, dicono in sanskrito, dove para, il supremo, e apara, l’infimo, hanno un centro in comune nella parola e nel concetto del supremo-infimo come unità.
E’ una piroetta che per essere sostenuta psicofisicamente ha bisogno di coraggio, preparazione, abbandono, della caduta dello schifo e del giudizio: insomma, della grazia. Ma anche di un’improvvisa intuizione, di un certo percorso, di alcuni poteri, o siddhi. Arduo sia per chiunque.
Tra le siddhi, i poteri magici sviluppati dallo yogi, uno si avvicina a questa piroetta, che è il desiderio nella sua forma più estesa e che trova in qualche modo nell’erotismo una possibilità conturbante di realizzazione: il prakamya, il potere dell’acquisizione del desiderabile, una volontà irresistibile che incorpora tutto il desiderio, tutti i desideri, e che in alcuni testi tantrici coincide con il potere di penetrare il corpo altrui fino ad essere completamente un altro corpo, il parakaya pravesh. Lo stesso potere permette ad uno yogi di immergersi nell’acqua e di restarvi quanto vuole; perchè diventa quella stessa acqua.
Per il tantra vi è bisogno di tutto, tutto serve, tutto può tutto.
Il tantra è una sensazione tattile interiore che scorre, che genera ksobha, una scossa, uno squilibrio, una perturbazione che, se penetrata dalla coscienza, si trasforma in una forza incontrastata.
Che questo non sia percepito come un fremito sessuale è uno scarto del pensiero che si contrae al solletico; e quel solletico interiore portatore di beatitudine diviene un brivido di un fantasma sessuale che fa paura.
Tutto ciò compone l’umano, un umano possibile che per un solo istante è stato audace ed ha concepito l’impossibile.”
“Gli altri non sono che portatori di ossa” (Tantraloka).
Impossible Yoga. Benedetta Panisson